Armando Punzo è un drammaturgo e regista teatrale italiano di successo. Direttore artistico dal 1998 del Teatro San Pietro di Volterra e dal 2000 del Festival Volterra Teatro. Fondatore della Compagnia delle Fortezza che dal 1988 realizza spettacoli con i detenuti del carcere di Volterra. Portare l'attività teatrale in carcere è l'impegno di Armando da sempre. Dietro l'organizzazione
della Compagnia della Fortezza c'è l'Associazione culturale Carte Blanche fondata nell'1987 di cui lui stesso è direttore artistico. Tantissimi i successi ottenuti da Armando anche al di fuori del carcere con la sua attività di regista, basti pensare al seminario condotto a Casablanca in Marocco con quindici attori marocchini nel progetto promosso dall'E.T.I. “I Porti del mediterraneo” presentato in Italia al Duse di Bologna o ai laboratori finalizzati alla messa in scena dello spettacolo “Nihil – Nulla” per la Biennale di Venezia affiancato dal Teatro Metastasio di Prato e dal Festival di Zurigo.
Crede nel potere che ha la performance come azione di denuncia sociale?
«Tutti vogliono denunciare qualcosa, tutti che denunciano. La compagnia della Fortezza non vuole denunciare la situazione delle carceri in Italia. Io credo che il teatro sia teatro e il fine del teatro sia il teatro. E il fatto che io lavori dentro un carcere con dei detenuti in determinate condizioni, non è quello il mio obiettivo. E' evidente che facendo questo poi forse un luogo della “non-realtà” possa anche cambiare, mutare lepersone e far accadere qualcosa di straordinario, però non è quello l'intento. Anche perchè la performance intesa in questo senso come una sorta di strumento per un altro fine secondo me è anche un modo per eliminare le qualità della performance stessa. Io non mi sento tanto performativo, mi sento uno che fa teatro. La denuncia avviene già attraverso altri linguaggi, come la tv ad esempio. Credo che pensare a “fare teatro in carcere” possa creare questo tipo di fraintendimento, Teatro Sociale, questa etichetta che viene messa, che significa teatro sociale? Questa scelta di comodità per dire che non è teatro, è un teatro che si occupa dei problemi sociali, sempre con uno scopo denunciatorio, che sembra un sottoprodotto del teatro, una diramazione, una derivazione del teatro per altri fini. Ma il teatro se lo è , è sempre sociale. Io credo che sia a-sociale, che debba esserlo, non preoccuparsi del sociale, cioè di non creare socialità, anzi di scompigliare le carte, di mandare all'aria tutto e forse in quel modo si preoccupa veramente del sociale, degli esseri umani. Quando sembra una forma di cura, una ricetta per risolvere problemi, io non ci ho mai creduto. La Compagnia della Fortezza parla dell'uomo , non del carcere, anche se essendo in un carcere sembra che prevalga l'immaginario del carcere. Quando si parla di detenuti sembra che vorrebbero e dovrebbero essere liberati, ma non è questo, il detenuto sono io, non sono loro. La libertà non è legata al fatto contigente, quella detenzione lì che è un fatto concreto di manette, sbarre, è una condizione. Quella degli uomini che dovrebbero essere quelli liberi è meno visibile, ma io non credo che siano liberi. La libertà comincia nel momento in cui uno è consapevole della propria condizione di quello che vive e di quello che sta accadendo. Non credo che tanti siano consapevoli di questo».
Cosa crede delle istituzioni?
«Le istituzioni non imparano. E' un movimento lento, lentissimo, quasi invisibile da non riuscire a decifrarlo e se arrivano ci arrivano sempre quando tutto è finito, molto tempo dopo. Questa è la sensazione che hai quando ci lavori. Per questo non credo ci sia efficacia nella performance.
E del Living Theatre allora cosa mi dice? Usavano la performance per denunciare.
«Il Living (intervista a Cathy Marchand del Living Theatre di New York
qui) ha fatto delle cose straordinarie, ma in quegli anni. Bisogna sempre contestualizzare, perchè sennò alle volte può non capirsi il valore che hanno le cose. Però non è che mi interessa la modalità del Living, mi interessa il fatto che un gruppo in un dato momento storico ha una visione totalmente diversa, questo è interessante. Non credo che oggi si possa replicare l'esperienza del Living. Nonostante il nostro Mercuzio fatto dalla Compagnia della Fortezza ,ma lì è solo una questione di grandezza, di dimensioni, che esplode in una piazza. Ma è diversa la cosa, il contrario è un volersi mettere a far politica. Secondo me il teatro fa politica già con la sua forza, non ne acquista, non diventa spendibile sul mercato del sociale, anzi perde le sue funzioni, le sue peculiarità».
Perchè ha scelto di lavorare con i carcerati?
«Non bisogna prenderla come realtà. Per me è una grande metafora, carcere di un altro carcere molto più ampio. Poi chiaramente dentro il carcere c'è tutta un'altra umanità, ci sono voci, occhi, corpi, dialetti, lingue, tutta una serie di mancanze, sono dei buchi nella realtà e quindi sono, almeno per me, più interessanti di quelli che invece sono completamente spiaccicati nella realtà in cui vivono».
È comune dire che un carcerato trovi più facilità ad interpretare un personaggio per via
della propria esperienza, è vero secondo lei?
«Non è vero. Non c'è relazione tra il dato reale e la messa in scena. E' come dire che uno che ha esperienza di omicidio farebbe perfettamento o meglio di Robert De Niro , il Macbeth. Questo perchè si crede che il teatro sia spiaccicato nella realtà. Fare se stessi è una cosa che non mi piace, rifare se stessi sarebbe ancora peggio. Io sono per la visione artistica, non quella sanitaria. Ci sono due visioni nel teatro in carcere, quella che sposa la parte sanitaria, il teatro come strumento per la rieducazione e la socializzazione e tutte queste cose qui, quindi è un modo per depotenziare il teatro, cioè usarlo come se fosse una medicina, una sorta di antidoto».
Però effettivamente smuove delle corde, porta alla conoscenza...
«Certo ,ma questo è un effetto indiretto proprio perchè uno non fa questo, non si preoccupa dell'aspetto sanitario, forse puoi avere degli effetti straordinari da un punto di vista personale, di crescita, ma è lo stesso percorso di un giovane attore che crescendo si confronta con ciò che vuole dire e con il mondo. E' un'altra storia il fatto di rieducarsi e risocializzarsi, come se poi il mondo in cui dovrebbero tornare loro (i carcerati) fosse un mondo sano (ride), un mondo buono, che va bene. C'è un'ipocrisia di fondo. Il loro mondo non è separato dal nostro. Siamo tutti nello stesso mondo, con
storie sicuramente diverse, ma lo stesso».
E voi cosa ne pensate?